Fare pubblicità sui social è davvero utile?

Tim Hwang, ex global public policy lead di Google nel settore dell’intelligenza artificiale e del machine learning, spiega come ”oggi l’evidenza empirica sull’efficacia della pubblicità programmatica è ancora abbastanza confusa. Potrebbe non essere superiore a quella della pubblicità tradizionale”
L’imprenditrice Anna Tosi, titolare di un’agenzia di ragazze alla pari a Torino, pagava una tariffa per usare i dati su miliardi di utenti dei social media e così raggiungere i profili più in linea con le sue offerte. Solo che ad un certo punto, Tosi ha iniziato a ricevere telefonate dal lontano Pakistan e dal Ghana, tutte da parte di persone che cercavano lavoro. Come raccontato al Corriere della sera, Tosi spiega di aver ricevuto richieste “dai Paesi più remoti e dalle persone più improbabili”. Alla base c’era il modo in cui Facebook , in questo caso, stava usando i dati acquistati da Tosi, un meccanismo che si era inceppato.
Anche se l’imprenditrice ha deciso di abbandonare la strada della pubblicità sui social, quello che le è successo va oltre la sua singola esperienza, perché coinvolge tutti i mercati finanziari internazionali e anche noi, singoli individui nelle scelte che facciamo tutti i giorni. Si tratta di un problema, come sottolineato dal Corriere della Sera, da ben 2.700 miliardi di dollari, somma che è pari al valore di borsa aggregato di Alphabet-Google e di Meta-Facebook, i due gruppi che contendono più di metà dei budget globali delle inserzioni su Internet. Alla base di questo grande business, c’è la scelta degli inserzionisti di pagare somme molto elevate, perché Google e Facebook detengono una quantità di dati esorbitante sulle preferenze degli utenti/consumatori e di conseguenza si crede che investire in pubblicità attraverso questi due colossi del web significhi ottenere maggiore visibilità e più profitti. Ma il caso di Anna Tosi potrebbe far cambiare questa convinzione nel lungo termine.
L’effetto “bolla”, come accadde con i mutui subprime
L’obiettivo dell’investimento pubblicitario sui social fatto da Anna Tosi doveva essere quello, quando il “sistema Google e Facebook” funziona, di indirizzare verso le sue offerte lavorative utenti ben selezionati per età, residenza, sesso e situazione familiare in base a quello che viene dichiarato al momento della creazione del profilo (interessi, età, sesso, luogo di residenza, ecc).
Tuttavia come abbiamo accennato sopra raccontando l’esperienza di Tosi, il sistema ha avuto una falla e si è inceppato. Quindi sorge spontanea una domanda: dai dati delle persone che lasciano un «like» o chiedono qualcosa ai classici motori di ricerca è possibile ricavare tutto questo “guadagno” oppure accedere ad essi costa tanto solo perché attorno al valore dei dati digitali degli utenti si è formata, per citare il Corriere, una sorta di “bolla” proprio come 15 anni fa con i mutui subprime?
Per rispondere alla domanda con le parole dell’economista italiano della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, Alessandro Acquisti, secondo lui, ad esempio, “il vantaggio della pubblicità social e mirata sulla base dei dati produce come effetto l’incremento delle vendite fra il 4% e il 7%, rispetto alle inserzioni tradizionali.
“Uno studio sostenuto da Google e uscito dopo il mio, per contrastarlo, sostiene che l’incremento è più vicino al 40%.Ma se la pubblicità mirata sulla base dei dati costa cinque volte più di quella tradizionale, come a volte accade, anche un miglioramento del 40% sembra limitato rispetto ai costi” aggiunge Acquist.
Di tutt’altro avviso è, tuttavia, Tim Hwang, ex global public policy lead di Google nel settore dell’intelligenza artificiale e del machine learning, che spiega come “l’evidenza empirica sull’efficacia della pubblicità programmatica è abbastanza confusa. Potrebbe non essere superiore a quella della pubblicità tradizionale e si potrebbe arrivare a una crisi di fiducia, perché le imprese finiranno per chiedersi perché devono spendere tutti quei soldi”.
Un’esatta risposta alla domanda precedente, dunque, ancora non esiste, perché allo stato attuale ci sono tante e diverse interpretazioni, studi e valutazioni sul cosiddetto fenomeno dei “big data”.